Andalusia

È la musica di una chitarra, la sento scivolare sinuosa sul giallo dei frutti, rimbalzare sulle vele d’ocra della cattedrale, su poi in alto fino al minareto che non si rassegna a questo travestimento da campanile.
È quel momento del giorno in cui avanzando la sera porta più luce, quella calda dei lampioni si fonda con l’azzurro sempre più carico del cielo. Ho l’odore dei gelsomini nelle narici e un desiderio che si compie qui e ora, al mio fianco un sorriso lontano eppure presente.
Acini di bellezza si schiudono. Mani pizzicano sulle corde un motivo forse arabo; la musica è qui, vicino alle mura dell’ Alcazar di Siviglia , accanto al grande portone che resta aperto la sera. Mi volto sulla piazza, sull’ondeggiare dei volumi, sui colori carichi e caldi di una strana dolcissima malinconia.
Oltre le mura è come un luogo noto e amico questa corte chiusa; definita in alto dalle chiome dei limoni, in basso dai piccoli canali che segnano la pavimentazione e ordinatamente portano acqua alle piante. Acqua quieta, dal suono leggero, si accompagna al frinire dei grilli. Come fosse un orto, un giardino, appena fuori dalla fortezza, ma ancora dentro le mura, e fuori nella campagna si attardasse un suonatore di chitarra nel mezzo di un viottolo appena scosceso, forse l’ocra della cattedrale è solo ora un muro basso e a secco che divide messi di grano e frutteti. Ancora più lontano chi? Cristiani, arabi. Un battito di ciglia.
Nella piccola corte è uno scrosciare di mani per una bimba, per il suo passo di danza che ora svogliato si avvia verso l’uscio di casa. Un portoncino , simile a tanti altri, appena sotto le finestre curati vasi di fiori.
Dalla parte opposta un vicolo coperto da una lunga volta a botte immette nelle piccole vie del Barrio di Santa Cruz; costeggio i grossi filari di pietra squadrati, oltre si scorgono alte cime di alberi, arriva un senso di frescura e di pace, vedrò domani successioni di pieni e di vuoti, corti ordinate con spine d’acqua centrali e circondate da portici.
Intanto è notte, quasi pungente il profumo del gelsomino, porta antiche storie di amanti, mori e cristiani; si parlavano con la musica attraverso spalti e fossati e spesse mura, concordavano la fuga con complicità di furbe comari e di piccoli uccelli, il profumo porta anche l’eco di splendenti tesori sepolti dagli arabi in punti precisi dei loro palazzi, custoditi da soldati addormentati in un tempo immobile. Sotto, in cunicoli, e pozzi profondi.
Accarezzo la pietra, il suo ultimo calore.

Negli occhi ho il bosco di colonne della moschea di Cordoba, gli ori sbalzati delle grandi porte, alte su un podio, più in là sento il canto quasi gridato di una ragazza sulla ampia piazza di una collina, quella dell’Alcazin che guarda l’altra dell’Alhambra a Granada.
Volumi primari, solidi elementari, separati con ritmo cadenzato da prati curati in cui sempre è presente l’acqua con zampilli e mormorii discreti, metto a fuoco i particolari: la sapienza di un corrimano nel palazzo del Jeneralife , una doppia curva dentro cui scorre un rivolo d’acqua, così che, poggiando la mano nella rotondità ,si riesce a raccoglierla nel palmo per poi rovesciarsela sul viso accaldato. Ovunque è l’ eleganza delle decorazioni, colorate quelle in maiolica o bianche quelle in marmo finemente traforato, ripetono in misurata simmetria un motivo morbido d’onde.
Ancora simboli dell’acqua, della vita strappata ai deserti; si possono trascorrere ore a osservare e gustare tanta bellezza sentendo dentro, nella propria interiorità, una grande pace interiore; e forse il fine segreto di questa architettura è suscitare tale difficile dimensione.