Architetture a confronto. Carlo Scarpa, Peter Eisenman.

L’installazione temporanea di P. Eisenman al museo di Castelvecchio a Verona in occasione della IX Biennale di architettura è stata un’opportunità abbastanza preziosa, sia perché nessuna opera di questo architetto si trova in Italia, sia perché ha offerto la possibilità di confrontare il segno di due maestri. Del resto il luogo non è stato scelto a caso, trascorsi quaranta anni dalla conclusione dell’intervento di restauro e riallestimento del castello scaligero da parte di C. Scarpa, si è voluto un omaggio a questa opera da parte di un architetto particolarmente sensibile al tema delle stratificazioni storiche.
Il titolo della installazione “Il giardino dei passi perduti” muove molteplici riflessioni: sulla poetica di entrambi, sulle connessioni tra i due maestri, infine sul luogo; non è il caso di parlarne in modo particolareggiato , ma per comprendere l’emozione, la passione che ha guidato il tracciare di una linea, il linguaggio dei materiali che continuano a narrare una storia, è necessario presentare brevemente i due artefici.
L’architettura di C. Scarpa è stata definita come “ la più colta e aristocratica del Novecento italiano”. Aristocratica, a mio avviso, perché il suo processo creativo nasce da una lentissima maturazione interiore in totale solitudine e autonomia, lontana dalla formula facile, dall’ appartenenza a un gruppo, dall’ ideologia. Colta, perché parte dall’elaborazione del dettaglio, sia con la scala 1: 20, sia con schizzi, continuamente revisionati, in maniera che alcuni hanno giudicato maniacale, ossessiva ; considerandoli solo successivamente un’opera completa, convinto come era che il dialogo tra le parti facesse scaturire l’insieme.

La sua poetica è come un racconto dipanato, attraverso successive stratificazioni che emergono dalla sua matita, perciò lui stesso diceva: “ Voglio vedere le cose, non mi fido che di questo….Posso vedere le cose solo se le disegno.”
Maestro nelle operazioni di restauro di un edificio ( il museo di Castelvecchio a Verona è una delle sue maggiori opere), dotato di grosse capacità di lettura e di interpretazione degli spazi antichi in chiave attuale, imprime il proprio segno in modo deciso, ma senza violenza, con calcolate dissimetrie. Con una paziente calibratura della luce apre gli angoli, gli spigoli, sul cielo, raggiungendo spesso una riuscita integrazione ambientale dell’opera.
P. Eisenman è stato all’inizio della sua professione un critico di architettura, ben inserito nell’élite newyorchese, fondatore di riviste, docente, è approdato alla progettazione tardi, lavorando non solo in patria, ma anche in altri paesi.
Personalità complessa e inquieta, dotato di un desiderio continuo di sperimentazione non si ferma sulle teorie individuate per il suo progettare, ma continuamente è alla ricerca di nuovi stimoli; così all’inizio della sua produzione il richiamo e lo studio dell’architettura di Terragni è palese e dichiarato: reinterpreta il telaio, sperimenta l’effetto dell’esplosione o dell’ implosione dei volumi. Successivamente i suoi progetti affondano nel terreno; poligoni complessi appaiono come minerali sbalzati fuori da movimenti della terra, fanno riferimento a lontane geometrie del luogo, in una operazione del tutto concettuale che definisce dello “sterro archeologico”, e che si avvale come strumento d’organizzazione di un tracciato, cioè di una griglia, un reticolo ordinatore. E’ il momento in cui studia la teoria dei frattali, la geometria del caos come alternativa a quella euclidea.
Infine elabora altri concetti, tra quali quello del “tra” o “between”, spazio tra le cose, inserisce cioè sui percorsi una maglia reticolare tridimensionale che ammaglia gli edifici creando nuovi fulcri e nuovi movimenti.
L’installazione temporanea a Verona è insieme un omaggio a C. Scarpa e una presentazione delle proprie idee architettoniche; il suo titolo è insieme poetico e misterioso.
E’ inevitabile pensare a M. Proust e alla sua celebre opera “ Alla ricerca del tempo perduto”.
Ma quale è il tempo a cui allude il maestro americano?
Gli anni trascorsi dal termine del restauro e riallestimento del castello scaligero, o quello più lontano dell’impianto stesso? Oppure, la ricerca del tempo perduto si riferisce a uno ancora più lontano, primitivo e cosmico quasi, dove le masse appaiono come grossi minerali portati alla luce da movimenti sotterranei e tellurici, che sollevano la coltre di prato verde, scoperchiando le sue “piazze”?
Come se fossero lì da sempre, testimonianza della storia del luogo, insieme alle griglie rosse, reticoli spaziali ordinatori, che entrano addirittura nello spazio interno del museo, come citazioni; lì dove l’intervento di Scarpa arretra invece rispetto alle preesistenze del castello.
Il ribaltare le cinque stanze della scultura del pianterreno, cosi curate dall’architetto veneto, nelle stesse dimensioni, e con l’asse ugualmente orientato, all’esterno; il farle diventare “ piazze”, luoghi di pausa, di raccoglimento lungo il percorso che si snoda tra il verde le fa diventare come sale d’attesa.
Certamente lì si muovono i passi perduti
Chi o cosa si aspetta? A cosa si assiste? Forse l’intrecciarsi delle operazioni dell’uomo con quelle della natura, l’interpretazione equilibrata e rispettosa del riallestimento di Scarpa, l’omaggio allo stesso da parte di Eisenman, con la sua idea dello “sterro archeologico”, in questo caso ancora più calzante, eloquente. Disseppellire la storia di un luogo, la sua intimità e vocazione, scoprirne le geometrie, abbandonate oppure solo sognate. Metafora, che diventa metodo di lavoro.
Il percorso, tra le pause, è di movimento tra onde di prato prima serrate, strette, appena sotto il monumento equestre di Cangrande I della Scala, poi più distese e “pettinate”, si aprono e arretrano di fronte al piano orizzontale di cemento lisciato che affiora, e che porta in corrispondenza della loggia in facciata un solco, una incrinatura. Come segno della lotta tra due materie, naturale e artificiale, dove nessuna si afferma a vantaggio dell’altra, in un equilibrio dichiarato, che si conclude e si arresta circondando la fontana vicino all’ingresso.
L’asse di Scarpa all’interno del museo è obbligato dalla successione delle stanze disposte in questo modo; l’artista artigiano si accosta con rispetto alle strutture murarie antiche introducendo materiali come gli intonaci lisci, il legno, il ferro, lasciando sempre un vuoto all’incrocio dei piani. Cura il dettaglio con la maniacalità nota.
Lì dove può però, sovverte l’assialità del percorso, rompe la maglia ortogonale, connettendo i corpi dell’edificio con passerelle leggere e ruotate, con innesti che permettono una visuale del complesso non di facciata, ma di scorcio, di angolo.
Sul fiume di tetti e di acqua che c’è intorno e in alto, sull’ingresso e il prato, sul sorriso del cavaliere Cangrande della Scala. Benevolo e magnifico.
E’ questo il fulcro del restauro di Scarpa. Visibile da ogni punto esterno, il cavaliere guida i passi dei visitatori, fa del passato un tempo ritrovato; li rallenta, li affretta, li ferma infine. Così che gli occhi indugino sul destriero e sulle armi. Così che prendano forma fantasie e memorie, si levano dal labirinto dei segni ripetuti, degli angoli scavati fino allo spasimo, per ritmarsi sulla tensione e poliedricità del suo racconto che diventa poesia. Condivisibile e calda per chi ha passeggiato nelle stanze e nel giardino, e dagli spalti ha infine osservato l’Adige nel suo scorrere antico fra il fare degli uomini.

Arch. Teresa Mariniello